
Un buon candidato dovrebbe dire ai francesi: "Abbiamo un problema e siete voi"
Dominique Reynié, Sofia Ventura | 29 mars 2022
Conversazione con Dominique Reynié (Sciences Po) sul malaise français e l'evaporazione dei partiti: "Il voto francese è in sé un’elezione populista, per essere eletti diventa necessario promettere l'impossibile. Non sono elezioni non di designazione, ma di destituzione. Fatte per tagliare teste"
Il 10 aprile si terrà il primo turno delle elezioni presidenziali francesi. Un evento che certo avrebbe attirato molta più attenzione se poco più di un mese fa le opinioni pubbliche occidentali e massimamente europee non fossero state bruscamente calamitata dalla brutale aggressione della Russia di Putin di un paese democratico e sovrano, l’Ucraina. La stessa consultazione francese per la massima carica dello Stato, d’altro canto, ne è stata influenzata. Il tema, infatti, è ovviamente entrato nella campagna elettorale. Inoltre, l’esplodere di una guerra in pieno continente europeo, con il coinvolgimento massiccio anche se indiretto dei governi europei e della stessa Unione Europea, ha prodotto spostamenti nel consenso dei principali candidati, che sono andati a favorire il presidente uscente, secondo la nota dinamica del rally around the flag durante le fasi di crisi e grazie al di più di visibilità che inevitabilmente Macron ha ottenuto. Eppure, questa elezione, nonostante l’esito, che a oggi pare quasi scontato, di una vittoria del Presidente in carica, sotto una pluralità di aspetti evidenzia una serie di fragilità del sistema politico e istituzionale francesi che potrebbero trasformarsi in una fragilità del suo funzionamento democratico.
Secondo i sondaggi di fine marzo, circa il 50% dei francesi sembrerebbe orientato verso partiti antisistema, di destra o di sinistra. Lo stesso Presidente Macron, d’altro canto, vinse nel 2017 presentandosi come un outsider critico del sistema, senza un partito strutturato, ma con un movimento personale che tale è rimasto. Tra i primi cinque candidati, sempre secondo i sondaggi, vi sono tre leader populisti, due di destra, Marine Le Pen e Eric Zemmour, e uno di sinistra, Jean Luc Mélenchon. I candidati dei partiti che per quasi sessant’anni hanno costituito i pilastri del sistema della V Repubblica, socialisti e gollisti, paiono ormai fuori gioco. E tutti, candidati populisti e mainstream, ad eccezione del Presidente Macron, appaiono poco credibili agli occhi dei francesi come présidentiables, ovvero futuri possibili presidenti, come emerge, ad esempio da una recente indagine di Ipsos.
Insomma, diversi indicatori sembrano parlarci di un malaise français che non ha trovato sino ad oggi pieno riconoscimento e soprattutto non sembra essere affrontato seriamente dai principali attori politici e istituzionali. Un malaise che proprio le elezioni ripropongono nella sua irrisolta drammaticità. Di questo abbiamo parlato con Dominique Reynié, professore di Scienza Politica a Sciences Po Paris, noto opinionista e direttore di uno dei più importanti think tank francesi, Fondapol – Fondation pour l’innovation politique.
Abbiamo più volte avuto l’occasione di parlare del meccanismo politico-istituzionale francese e di come i suoi ingranaggi comincino a incepparsi. I problemi emergono con particolare chiarezza quando si giunge alla scadenza elettorale delle presidenziali. Cosa ci dicono le imminenti elezioni? Ma anche quelle di cinque anni fa, del 2017, che rappresentarono un vero e proprio sconvolgimento nel panorama politico francese.
L’elezione del 2017 e quella che si terrà a breve, anche indipendentemente dalla crisi attuale prodotta dall’invasione russa, si collocano sulla linea di una evoluzione storica che ha visto realizzarsi una progressiva alterazione del sistema politico, divenuto via via sempre più disfunzionale rispetto all’obiettivo del ‘buon governo’. Per capire come ciò possa essere avvenuto, bisognerebbe tornare alle elezioni del 1988. Siamo verso la fine del mitterandismo; Jean Marie Le Pen, alla guida del suo Front National, al primo turno ottiene il 14,5 per cento dei suffragi. Allora alcuni pensarono che si trattasse di un evento eccezionale, un po’ come il poujadismo, come l’esperienza dell’Uomo qualunque in Italia. Insomma, quel risultato fu percepito come una febbre momentanea. In realtà già allora si era messo in moto il fenomeno di un elettorato di sinistra che cominciava a muoversi verso la destra estrema di Le Pen e non sarebbe tornato più indietro. È allora che il sistema comincia a guastarsi. Sette anni dopo, nel 1995, Le Pen ottiene il 15 per cento. Nel 2002 è al secondo turno, lasciando per la prima volta fuori i socialisti, con il 16,9 per cento. Già vediamo qui tre elezioni che segnalano una destrutturazione, e tuttavia ancora in quegli anni non ci si rende conto di quello che sta accadendo, che il problema sta diventando strutturale. Le presidenziali del 2007 tutto sommato appaiono più normali. Ci sono nuovi candidati che riescono ad appassionare, come Ségolène Royal e Nicolas Sarkoz, espressione rispettivamente del Ps e dei neogollisti (all’epoca col nome Ump). Per la prima volta una donna arriva al secondo turno. Sarkozy fa una campagna trascinante, Royal con il suo laboratorio partecipativo Désir d’avenir apporta una novità. Jean Marie Le Pen arretra al 10 per cento, è una sconfitta. Ma che segue tre successi. Tuttavia, ci si concentra su quella sconfitta e si ritiene che il ‘pericolo’ sia passato. Un modo di ragionare un po’ bizzarro.
Infatti, nel 2012, la destrutturazione del sistema partigiano riprende il suo cammino. Marine Le Pen consegue il miglior risultato del Fronte Nazionale alle presidenziali: il 17,9 per cento. Nel 2017 l’avanzata del Fronte Nazionale con la sua nuova leader prosegue (21,3 per cento), mentre allo stesso tempo avanza il carismatico candidato della France Insoumise, partito populista della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, che ottiene al primo turno quasi il 20 per cento dei voti espressi. Era dal 1969 che il partito socialista (che nel 2017 si ferma poco sopra il 6 per cento) non veniva superato da un partito alla sua sinistra in una elezione presidenziale. Già nel 2017 circa il 50 per cento di chi si reca alle urne vota per partiti antisistema.
Il meccanismo che aveva presieduto al funzionamento del sistema francese della V repubblica, basato su una dialettica bipolare e la centralità di una destra e una sinistra interne al sistema, è inceppato. Tra il 2012 e il 2017 il Fronte nazionale diventa elettoralmente il primo partito nazionale. Ottiene successi alle elezioni europee, dipartimentali, regionali. La sua avanzata sembra irresistibile. I partiti sia di destra sia di sinistra cominciano ad avere importanti difficoltà, anche se la concorrenza del Fronte (dal 2018 Rassemblement National) appare più dannosa per la destra gollista. Una destra gollista ormai infragilita dopo la sconfitta di Sarkozy alle presidenziali del 2012. A differenza di quanto si possa credere, per la destra repubblicana il problema delle elezioni del 2017 non riguardò solo la figura di Fillon e le sue questioni giudiziarie. Il problema di fondo fu piuttosto quello di non essere in grado di riunire tutte le anime di quella destra. Al primo turno delle primarie (le prime vere primarie per i gollisti) fu eliminato Sarkozy, al secondo Alain Juppé. Due grandi figure del partito gollista. Scelsero Fillon, ma poi non ci fu un vero ralliement attorno a lui. Con l’emergere degli scandali che lo riguardano (il lavoro fittizio della moglie, i regali) il partito perde pezzi e una parte degli elettori si sposta su Emmanuel Macron.
Il paesaggio è dinamitato. E nel 2017 Macron in realtà non trionfa, sopravvive. Non è lui che ha provocato il movimento tellurico. Ne approfitta. Con la sua postura che non è antisistema, ma fuori-sistema (hors-système) e il suo movimento che non è ancora un partito. Diventa presidente della Repubblica con l’atteggiamento di chi va a presiedere un consiglio di amministrazione. En Marche non è mai diventato un vero partito. Dopo cinque anni, non esiste come tale. Non esiste e non continuerà ad esistere, anche se Macron, come è probabile, sarà rieletto.
Non si è mai vista una cosa del genere. Un presidente-candidato sostenuto da una formazione priva di qualunque consolidamento e debolissima a livello territoriale. Les Républicains, i neogollisti, completamente a terra, con una candidatura – quella di Valerie Pécresse – difficile, decisa in condizioni difficili, con l’accordo sulla procedura raggiunto in modo estremamente tardivo. Il Partito socialista che ha ottenuto un pessimo risultato nel 2017 e ora farà probabilmente molto peggio. I centristi non esistono più. Tutti i partiti di governo sono spariti e En Marche non è un partito.
Insomma, negli anni recenti è emersa, come conseguenza di un lungo percorso, una situazione che la Francia non aveva mai conosciuto. I partiti, il sistema dei partiti, non regolano più il sistema istituzionale. Non sono più in grado di farlo funzionare.
Tutto ciò è tragico, perché noi non conosciamo democrazie senza partiti. Il sistema dei partiti è componente essenziale del sistema politico, gli dà forma insieme alle istituzioni e a queste dà sostanza, le fa funzionare. Non possiamo non chiederci: cosa è accaduto? Cosa ha reso i partiti attuali così incapaci di assolvere alle loro funzioni?
I partiti sono in una situazione che è la conseguenza di una diffidenza che si è manifestata costantemente nel quarto di secolo precedente, durante il quale essi, i loro leader, non hanno compreso ciò che gli accadeva. E hanno reagito secondo il modello del partito cartello. La migliore spiegazione di questo stato di cose credo che ce la fornisca proprio il «partito cartello».
Sono assolutamente d’accordo. Anche la crisi italiana, anche se in un contesto istituzionale diverso, è in parte comprensibile attraverso questa categoria. Partiti in crisi, che perdono iscritti, consenso, risorse. I quali, da un lato, cercano di bloccare l’entrata nel mercato politico di nuove forze, ad esempio attraverso le regole sul finanziamento dei partiti, sull’accesso ai media, sulla presentazione delle liste, dall’altro si barricano nelle istituzioni. Si barricano e compenetrano la struttura dello stato, per mantenere potere, risorse di vario tipo, visibilità. Al contempo si allontanano sempre più dalla società. Non la rappresentano e non la comprendono.
Questa teoria si applica molto bene anche ai partiti politici francesi. Hanno ‘cartellizzato’ il sistema, si sono imposti sul finanziamento pubblico, hanno scritto le loro proprie regole del sistema politico per gestire la loro posizione di dominio, hanno cercato di impedire agli outsider di entrare, attraverso le regole di partecipazione, di finanziamento, il sistema dei parrainages [firme di eletti, oggi 500, necessarie per candidarsi all’Eliseo]. Cruciale è il finanziamento, che è diventato interamente pubblico, una scelta legata alla diffidenza culturale verso il denaro privato.
E come prevede la teoria, in quanto ‘partito cartello’ a un certo punto non hai più bisogno di essere in contatto con la società, è sufficiente che tu sappia agire sulle norme, che tu abbia un rapporto con la struttura dello stato e la tua vita è assicurata. Ci sono partiti che si sono riempiti di funzionari pubblici, e ancor più di alti funzionari, ‘enarchi’ [Funzionari provenienti dall’ENA, la più alta scuola di amministrazione], con legami professionali con lo stato, l’amministrazione. E non parlo qui di corruzione, ma di una cultura dello Stato che prevale, mentre la società è stata completamente dimenticata. Ad ogni elezione arrivano e dicono: voilà, questi sono i nostri candidati e voi dovete votare per loro.
Teniamo inoltre presente che la Francia già possiede una cultura ostile ai partiti politici; allora è ancor più necessario che essi mostrino di meritare il loro posto. Il Ps, come altri partiti di massa, un tempo aveva creato una contro-società, dimostrando di meritare quello spazio. Anche il Fronte Nazionale, in fondo, perché agli occhi dei cittadini aveva il merito di porre questioni delle quali non si discuteva mai. E così via.
Oggi vediamo invece che i partiti sono insensibili alle questioni importanti per la società. La destra repubblicana è andata completamente fuori sincrono sulla questione del matrimonio omosessuale. In modo grave. Non ha compreso l’evoluzione della società. Ha quasi dato l’impressione di essere una forza di cattolici praticanti, cosa che non è affatto. Non è la destra di Simone Veil, del generale de Gaulle, della pillola. E non ha nemmeno compreso quei movimenti sorti negli anni della presidenza di Sarkozy, di piccoli imprenditori alle prese con i problemi creati da un fisco asfissiante. Piccoli proprietari, in tutti i settori, che denunciavano problemi con la burocrazia, i contributi, il prelievo fiscale, sostenendo di non potercela più fare. “Le moutons”, “les pigeons”, venivano chiamati. La destra è stata incapace di rappresentarli. Non si è posta in relazione con la società non solo sul piano dei valori, ma nemmeno su quello economico.
Il Partito socialista, dal canto suo, ha perso il contatto con le classi popolari. Su grandi questioni come quelle dell’immigrazione, dell’Islam. Sul potere d’acquisto, lasciandosi trascinare da una idea ecologista saldata con la decrescita. Un atteggiamento che ha toccato anche la destra, che con alcuni suoi rappresentanti, come Jean Louis Borloo, ha dato l’idea di sposare tesi di sinistra, perdendo così i contatti col mondo agricolo, che ha perciò cominciato a spostarsi anch’esso verso il Fronte Nazionale/Rassemblement National.
I partiti francesi, in questa loro veste di partiti ‘cartello’, sono ormai privi di ogni sollecitazione per conoscere il mondo circostante, non lavorano, non hanno prodotto alcuna idea, alcun rapporto nuovo con settori della società. I socialisti sono all’opposizione da cinque anni. Non hanno prodotto nulla, nulla. La destra è all’opposizione da dieci anni: non ha prodotto un’idea, non un programma riformulato, non un gruppo di persone nuove con una visione diversa. Niente. Nel 2007 hanno perso il potere, nel 2022 sono ancora lì. Uguali. E si presentano parlando e decidendo come allora. Ma tutto questo non funziona più. Perché tutto è cambiato. Non dicono nulla sul digitale, sull’intelligenza artificiale, sulla biotecnologia. Non sono certo temi di campagna. Ma andrebbero comunque affrontati. Non sappiamo cosa pensano a proposito delle piattaforme digitali, cosa vogliono fare per regolare Internet. Niente. È impressionante. È come se si fossero rinsecchiti. Sono diventati capaci di difendere soltanto le loro rendite di posizione,
Ecco, allora, perché in queste elezioni è emerso uno come Eric Zemmour. Perché non c’era nulla, mentre Marine Le Pen ha cominciato a essere vista come un po’ obsoleta,
Potremmo dire ‘imborghesita’.
Esatto.
Accanto ai partiti ci sono le istituzioni. In Italia spesso si è guardato al sistema presidenziale come a una soluzione per la crisi dei partiti, ma anche per le stesse inefficienze del nostro sistema di governo. È stato spesso evocato il modello francese. Sono stata tra coloro che a lungo hanno pensato che per noi avrebbe potuto costituire una buona soluzione. Oggi ho dei dubbi. Ma ci arriviamo. Cerchiamo ora di ragionare su questa figura presidenziale e la sua elezione in termini sistemici.
Innanzitutto, cominciamo col dire che l’elezione francese è in sé un’elezione populista.
Lo è sempre stata? Fin dall’inizio? Fin dalla prima elezione a suffragio universale nel 1965?
Sempre. Quando va bene, ed è andata bene dal ’65 all’ ’88, i francesi chiedono al loro presidente qualcosa che in effetti viene loro dato. Ad esempio, più spesa pubblica, più spese sociali, anche cose simboliche. E allora qui vediamo che sussiste un rapporto tra il voto espresso e i risultati successivi. E in più c’è la possibilità di scegliere direttamente il proprio capo. Il tutto appare, appariva, come prodigioso. Poi però le cose cambiano, e per essere eletti diventa necessario promettere ciò che non è più possibile fare.
Insomma, dopo i Trenta Gloriosi, gli anni in cui si consolida il modello della V Repubblica, il bipolarismo, il fait majoritaire, a un certo punto anche l’alternanza, il sistema comincia a scricchiolare.
Esatto. Nel 1995 Balladur è sconfitto perché non amava i meeting, i grandi discorsi, voleva fare cose serie. Si è fatto distruggere da Jacques Chirac che allora veniva addirittura comparato a un Che Guevara.
Certo, Chirac, dopo la sua lunga fase liberista, si riscoprì ‘di sinistra’, inventandosi per la campagna di quell’anno lo slogan della ‘frattura sociale’.
E quindi, a partire dagli anni Novanta, le presidenziali assumono una nuova valenza.
Già, gli anni Novanta. Anche in Italia le promesse finanziate col debito pubblico entrano in crisi. Non sono più sostenibili. Perché il debito non è più sostenibile. E c’è Maastricht.
E infatti i candidati alla Presidenza dovrebbero avere il coraggio di dire ai francesi che non si può fare tutto, che sono necessarie anche delle riforme difficili. Ma così rischi di non essere eletto. È quello che accadde a Bayrou nel 2007: aveva fatto tutta una campagna sul debito pubblico, ed è arrivato a un onorabile terzo posto. Era la prima volta che si vedeva un candidato fare una campagna sul debito. Aveva ragione, era un problema, ma non arriva al secondo turno.
Quindi, a partire dagli anni Novanta, il candidato che dice, attenti, non si può fare tutto, è sconfitto.
C’è una nuova condizione socioeconomica, ma c’è anche un fattore intrinseco all’elezione diretta che innesca in quella condizione un circolo vizioso. Nello spirito dell’elezione, la sovranità popolare, quando ha parlato, necessariamente si concretizza. Altrimenti non è sovranità popolare. E i francesi credono alla promessa istituzionale: ciò che il popolo vuole, l’istituzione realizza. A partire dagli anni Novanta, però, le promesse continuano, ma le realizzazioni si fanno attendere. E così i francesi si sentono delusi, cominciano a dire che destra o sinistra è lo stesso. E allora l’alternanza assume un’aria malsana, non è più un’alternanza costruttiva, democratica, dialettica, diventa un’alternanza del risentimento, della delusione, sia a destra sia a sinistra. Un’alternanza che a poco a poco, invece che rigenerare il sistema, lo mina. In un sistema fisiologico potremmo immaginare che la destra, la sinistra, andando alternativamente all’opposizione, si rigenerano. E invece no. Dominano la collera, la frustrazione, il risentimento, che trasformano le elezioni presidenziali in elezioni non di designazione, ma di destituzione. Fatte per tagliare teste.
Si direbbe quindi che l’elezione presidenziale favorisca un circolo vizioso fatto di demagogia e delusione.
Sì, perché è proprio nell’elezione presidenziale che ritroviamo un meccanismo che rende impossibile la formulazione dei problemi: mi presento e dovrei dir loro la verità, ma quella verità è “abbiamo un problema e il problema siete voi. Perché volete cose che non possiamo darvi. Perché non possiamo più spendere, non abbiamo più soldi. Se ve lo dico ad uno ad uno singolarmente, potete rispondermi capisco, ma se ve lo dico tutti insieme dite, ok, però lo vogliamo lo stesso”. Se un candidato si esprimesse così andrebbe ad assomigliare a quegli ottimi candidati che però non hanno mai raggiunto il secondo turno, come Raymond Barre o Edouard Balladur, o ottime figure, come quella di Michel Rocard, che alla candidatura non giunse mai.
In un contesto come il nostro, segnato da squilibri budgettari, indebitamento, sarebbe necessario dire ai francesi: non posso darvi quel che chiedete. Ma non succede. Oggi nemmeno Macron, anche se in pratica non ha avversari, dice la verità sulla situazione. E penso che se la dicesse, potrebbe rischiare di non andare al secondo turno. Certo, potrebbe parere ragionevole non sbilanciarsi prima del voto. Ma se dopo le elezioni il discorso cambia, se dopo le elezioni si spiega che non si può più continuare a ricorrere in modo così massiccio al prestito, le persone cominceranno a lamentarsi di questa sterzata. Di politiche che non erano mai state anticipate. Ed è quello che è accaduto nel 2017 con i Gilets Jaunes. Ma già durante gli anni di Hollande la violenza fisica era nelle strade, e ancor prima con Sarkozy.
Certamente, poi, in tutto questo, la debolezza dei partiti di cui parlavamo prima non aiuta. Partiti deboli non garantiscono più quella solida maggioranza all’Assemblea nazionale della quale, nei fatti, il Presidente si avvale.
È così. Già durante il quinquennato di Sarkozy era emersa una significativa dissidenza parlamentare nel partito di maggioranza guidata da Jean François Copé. Con Hollande c’è stato il fenomeno dei ‘frondisti’ all’interno del gruppo socialista all’Assemblea Nazionale, certamente uno dei fattori che ne hanno decretato il fallimento. Sotto Macron non c’è stato questo fenomeno, ma il suo gruppo si è scarsamente professionalizzato, ha conosciuto molti abbandoni, la creazione di gruppi autonomi. Quindi i Presidenti non riescono più ad avere quel solido appoggio in Assemblea dei loro predecessori.
E il caso di En Marche è interessante. Perché non ha dalla sua il Senato, non ha eletti locali, praticamente non ha militanti, ha solo l’apparato statale. Ma forse proprio l’apparato statale è il problema, perché, paradossalmente, se si vogliono fare riforme strutturali per riequilibrare le finanze, ad esempio, bisogna andare a toccare proprio quella struttura sulla quale ci si potrebbe appoggiare.
Surriscaldamento demagogico, debolezza dei partiti, nella società e in parlamento: lo spazio per il populismo è grande in una tale condizione. E tu hai parlato di una intrinseca natura populista dell’elezione presidenziale.
Sì. Il sistema è ormai tale da rendere impossibile il funzionamento razionale, chiaro, deliberativo della democrazia. Se gli stessi candidati mainstream dicono agli elettori “avete torto, esagerate, non siete ragionevoli”, lasciano spazio ai populisti, che finiscono per vincere al secondo turno. E così sono indotti a fare una campagna dai toni piuttosto populisti o demagogici per essere eletti, presentandosi come moderati, ma dicendo “possiamo fare come voi volete”, cosa che non è vera. Così la competizione diventa tra diversi gradi di appello demagogico e antipolitico. Lo abbiamo visto nel secondo turno del 2017, tra il ‘fuori-sistema’ Macron e l’antisistema Le Pen.
E a breve ci ritroveremo probabilmente di fronte allo stesso duello. Con il Presidente uscente, Macron, che non ha voluto cambiare profilo rispetto al 2017, per presentarsi di nuovo come libero da legami partigiani, di nuovo sfruttando e coltivando il diffuso sentimento antipartito.
E tutto questo è destinato a polarizzarsi sempre più, perché quando il candidato-demagogo è chiamato a governare e delude, viene percepito come un mentitore, come qualcuno che non vuole realizzare le promesse, non che non può, e allora ci si rivolge a chi in quel momento alza ulteriormente la posta. Come ricordavi tu all’inizio, tre dei principali candidati sono esplicitamente populisti e antisistema, e Marine Le Pen si è vista sfidata da un candidato di una destra sovranista e profondamente illiberale come quella di Eric Zemmour.
Insomma, la stessa convenzione elettorale è antinomica rispetto alla scelta di governanti responsabili; fabbrica l’irresponsabilità, la menzogna, la dissimulazione, la promessa demagogica.
Tutto questo, naturalmente, è stato esasperato dai processi di mediatizzazione della politica, che hanno assunto un’ampiezza particolarmente significativa nell’ultimo ventennio.
Certamente, e ha assunto dimensioni inedite con lo sviluppo del web e dei social network. Si possono ormai bypassare i partiti e andare avanti da soli. Come ha dimostrato Macron, ma anche la popolarità della candidatura di Zemmour. Stiamo entrando in un ciclo in cui compaiono leader e formazioni che è davvero difficile pensare di poter assorbire nel sistema. Normalizzare.
Comincio a pensare che non sia il momento storico più adatto per proporre un presidenzialismo come soluzione ai problemi di malfunzionamento di un sistema, come spesso pensiamo in Italia e come dicevamo all’inizio. L’attuale esasperata mediatizzazione sembra amplificare quegli aspetti potenzialmente plebiscitari e populisti della scelta presidenziale che abbiamo visto. La combinazione tra scelta diretta del capo dello Stato con importanti poteri di governo e mediatizzazione si direbbe che renda ormai sempre più casuale e imprevedibile l’ascesa di questo o quel personaggio.
Esatto, come è accaduto negli Stati Uniti con Trump.
E i partiti ‘cartello’ non sono più un argine a tutto questo.
No, non lo sono più, non lo sono stati nel 2017, quando non sono stati in grado di fermare l’ascesa di Macron.
Qualunque sia il sistema istituzionale, mi par di poter concludere, se una soluzione a tutto questo esiste, se invertire la tendenza non è da considerarsi un’impresa impossibile, è dai partiti che bisogna soprattutto ripartire.
Sì, perché non sappiamo ancora immaginare le democrazie senza partiti. Ma nel mondo attuale l’obiettivo è estremamente complesso e la grande questione sarà soprattutto, credo, come ricostruire i partiti in presenza di questa pervasività dei social network. Ma questa è un’altra intervista.
E un ‘vaste programme’, avrebbe detto il Generale.
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